Proposta Radicale 28/29 2025
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Caro Presidente Mattarella, la disabilità non è femmina

di Maria Antonietta Farina Coscioni

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Riforma elettorale, l’inascoltata proposta Prodi 

di Francesco Perpignano

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Ostaggi israeliani di Hamas

Un rapporto shock

di Luca Spizzichino

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Buon anno a Boualem Sansal

arrestato in Algeria

di Guido Salvini

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L’appello ignorato

di Giorgio Parisi

di Gualtiero Donati

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Cinema iraniano

perseguitato dal regime

di Michele Minorita

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Iran. Un carcere

riflesso della società

di Jean-Pierre Filiu

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Lo sterminio dilaga:

non solo più per fame

di Marco Pannella

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Caro Presidente Mattarella, la disabilità non è femmina

Caro Presidente Mattarella, la disabilità non è femmina

di Maria Antonietta Farina Coscioni

Illustrissimo Presidente della Repubblica, onorevole Sergio Mattarella, si è da poco conclusa la trentacinquesima maratona di Fondazione Telethon dedicata a sostenere la ricerca scientifica sulle malattie genetiche rare e dall’atto di nomina dei tre componenti dell’Autorità «Garante nazionale dei diritti delle persone con disabilità» firmato dai presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati. La ringrazio per aver accettato di interpretare nel cortometraggio Una giornata pazzesca della regista Francesca Archibugi, come attore sé stesso, esaudendo il sogno della piccola Mavi, una bambina affetta da atrofia muscolare spinale, di diventare una famosa giornalista perché incontra e intervista proprio lei, esattamente lei. Nel cercare le domande giuste, il fratellino di Mavi suggerisce di chiedere al Presidente della Repubblica cose del tipo: «Cosa può fare per i disabili?»; Mavi replica sorridendo: «Mica è Dio, mica mi può far camminare». Ma l’interrogativo è corretto, valore autentico del ruolo di Garante della Costituzione che lei riveste e incarna. Con la generosità di sempre, nella quotidianità della vita, tra il sorriso di due fratellini e di una madre e lo stupore di tutti per l’invito accolto dal Presidente. Illustrissimo Presidente, nessuna donna è stata nominata nella Autorità «Garante nazionale dei diritti delle persone con disabilità». Una assenza che non può essere ignorata. Una mancanza che ho ritenuto di non ignorare. Ho scelto di non ignorare il dettato dell’articolo 51 della Costituzione, secondo il quale non solo: «Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge», ma anche, a seguito della revisione costituzionale realizzata con la 1. cost. n. 1/2003: «La Repubblica promuove, a tale fine, le pari opportunità tra donne e uomini».

Illustrissimo Presidente, una assenza che si aggiunge in questa particolare e delicata nomina, a quella della trasparenza dei procedimenti di selezione dei candidati: l’assenza della possibilità di esprimere una manifestazione di interesse, non contemplato un qualche procedimento di valutazione che avrebbe consentito di conoscere il merito dei possibili candidati. Non si può, non si dovrebbe, dunque, in nome di una sorta di dominio riservato politico, tralasciare il dettato costituzionale dell’articolo 51. La disabilità non è femmina. Due uomini, i presidenti del Senato Ignazio La Russa e della Camera Lorenzo Fontana, nominano tre uomini alla guida dell’Autorità «Garante nazionale dei diritti delle persone con disabilità».

Tralascio, Illustrissimo Presidente, che per la legge che la istituisce i membri del Collegio devono essere «di notoria indipendenza, specifica comprovata professionalità, competenza ed esperienza nel campo della tutela dei diritti umani e in materia di contrasto delle forme di discriminazione nei confronti delle persone con disabilità». Mi scusi per le parole che potrebbero essere intese come uno sfogo, ma è probabilmente il semplice gesto di chi rivolgendosi al Presidente della Repubblica, sa di essere compresa e di rappresentare moltissime persone fragili, famiglie con disabilità. Perché femmina o maschio: è diverso anche nella disabilità. Le chiedo, come il fratellino di Mavi, ora Illustrissimo Presidente, «Cosa può fare per i disabili?».

Riforma elettorale, l’inascoltata proposta Prodi

Riforma elettorale, l’inascoltata proposta Prodi

di Francesco Perpignano

A quotidiana cadenza si viene informati su presunti umori dell’elettorato. Non sempre c’è da giurarne sull’attendibilità, sempre più i sondaggi sono diventati strumenti di propaganda; ad ogni modo le variazioni in crescita o in calo di questo o quel partito sono spesso irrilevanti: prefissi telefonici; davvero non si comprende come e di cosa si possa esultare per un incremento di un mezzo punto o anche di uno intero: oltretutto sono variazioni che nell’ambito delle medesime coalizioni.

Piuttosto il dato sistematicamente eluso e ormai consolidato da un buon decennio è quello di chi rinuncia ad esercitare il diritto di votare, a tutti gli effetti il “partito” maggioritario. Numero crescente, elezione dopo elezione. Sondaggi su questo fenomeno non vengono fatti, o se sono fatti, i risultati sono confiscati, tenuti ben lontani da sguardi e occhi indiscreti. Sarebbe invece interessante scandagliare le ragioni di non vota più, il perché di questa delusione, il senso di impotenza; per quale motivo si è arrivati alla conclusione che tutti sono uguali, nessuno dei competitori merita fiducia; non si crede più a quello strumento, il voto, per cui molti nonni e padri hanno lottato e sacrificato la vita. 

Dopo un periodo di apparente ritiro, Romano Prodi è tornato alla ribalta: gioca il ruolo del “grande saggio” del centrosinistra; dispensa consigli e suggerimenti, partecipa a manifestazioni e talk, scrive articoli e libri; sembra sia ascoltato con attenzione e interesse, forse da qualcuno con punte di timore per l’influenza che è ancora in grado di esercitare. Anche la più innocente delle sue battute viene vivisezionata e soppesata. 

Uno solo dei suoi “consigli” sembra essere caduto nel vuoto: quello che riguarda la legge elettorale. Prodi sostiene che la strada per rafforzare la democrazia non passa da una forma di governo come il premierato scommettendo tutto sul rafforzamento della guida dell’Esecutivo che, nella sostanza, insegue una terza via tra autoritarismo e democrazia, ed esautora il Parlamento già indebolito, recidendo il fragile rapporto fra i partiti e il Paese. Occorre andare in altra direzione: “Serve una legge elettorale con collegi uninominali capaci di giocare contro la frammentazione e di obbligare i partiti a proporre candidati non nominati dall’alto, ma eletti da un popolo che li conosce. Solo così si innalza la qualità dei parlamentari e, quindi, il ruolo del Parlamento”. Qualcosa di simile, insomma, a quello che in anni lontani proponeva, inascoltato, Marco Pannella.

Inascoltato anche Prodi, a quanto pare: il sasso lanciato nello stagno del dibattito politico non ha sortito effetto alcuno; flatus vocis, per rubare l’espressione di Roscellino di Compiègne. Né Elly Schlein né altri esponenti del Partito democratico, per non dire di Conte, Renzi, Calenda, Bonelli, Fratoianni mostrano il benché minimo interesse al suggerimento e al consiglio di Prodi. Questa legge elettorale, che permette alle oligarchie dei partiti di nominare i candidati ed eleggerli, va benissimo a tutti. Se poi il prezzo da pagare è una quota crescente di elettori che rinuncia al voto, è una sorta di “effetto collaterale” che non sembra dolere più di tanto

Ostaggi israeliani di Hamas Un rapporto shock

Ostaggi israeliani di Hamas

Un rapporto shock

di Luca Spizzichino

Fame, torture, abusi sessuali: sono alcuni degli agghiaccianti dettagli riportati nel documento ufficiale consegnato da Israele alle Nazioni Unite, che getta luce sulle condizioni inumane inflitte agli ostaggi catturati da Hamas durante l’attacco del 7 ottobre 2023. Questo rapporto, redatto dal Ministero della Salute israeliano e supportato da testimonianze di medici, familiari e sopravvissuti, intende sensibilizzare la comunità internazionale sull’urgenza di agire per salvare i prigionieri ancora in ostaggio e perseguire i responsabili di queste atrocità.
Il documento descrive nel dettaglio gli abusi subiti e il devastante impatto sulla salute fisica e mentale delle vittime, basandosi sulle osservazioni del personale medico che le ha curate al loro ritorno in Israele. Storie di riabilitazione, documentate con pseudonimi, mostrano il percorso di recupero affrontato dagli ostaggi sopravvissuti, dopo aver subito privazioni di cibo e acqua, percosse, isolamento, marchiature, tirate di capelli e violenze sessuali.

Secondo il rapporto, molti ostaggi sono stati privati di cure mediche essenziali, e almeno uno di loro è morto per complicazioni non trattate. Alcuni anziani rimpatriati hanno sviluppato trombosi venosa profonda a causa dell’immobilità forzata, una condizione potenzialmente letale se non adeguatamente curata. Preoccupazioni crescono anche per i bambini liberati, il cui sviluppo e benessere psicologico potrebbero essere gravemente compromessi a lungo termine.

Gli ostaggi hanno riferito di incubi ricorrenti, privazione di sonno e “derealizzazione”, con molti di loro convinti, durante la prigionia, di vivere in un incubo o in una realtà distorta. Il senso di colpa dei sopravvissuti è diffuso, e molti evitano di raccontare le proprie esperienze per timore di ritorsioni contro i familiari ancora prigionieri.

Tra le testimonianze, due bambini hanno raccontato di essere stati legati insieme e picchiati, mentre altri due presentavano segni di bruciature compatibili con marchi a fuoco. Due adolescenti hanno riferito di essere stati costretti a compiere atti sessuali l’uno sull’altro. Numerosi ostaggi, indipendentemente dall’età o dal sesso, hanno subito violenze sessuali, tra cui una donna aggredita sotto la minaccia di una pistola.

Per 450 giorni, uomini, donne, bambini e anziani innocenti sono stati torturati e privati della loro dignità. L’ONU ha ora tutte le informazioni necessarie per intervenire. Non c’è più tempo da perdere” ha scritto il Presidente israeliano Isaac Herzog su X. “Le sconvolgenti testimonianze degli ostaggi rilasciati dipingono una cruda realtà: abusi fisici, tormenti psicologici e condizioni disumanizzanti inflitte a persone innocenti, tra cui bambini e anziani, per oltre 50 giorni strazianti” ha dichiarato il movimento Hostages and Missing Families Forum a seguito della pubblicazione del rapporto.

Non passa giorno senza che io pensi alle immense difficoltà affrontate da coloro che sono tornati e da coloro che sono ancora prigionieri”, ha affermato la dottoressa Hagar Mizrahi, capo della direzione medica del Ministero della Salute. “Le gravi condizioni fisiche e mentali dei rimpatriati offrono al mondo uno sguardo sulle diffuse atrocità commesse da Hamas”.

Buon anno a Boualem Sansal arrestato in Algeria

Buon anno a Boualem Sansal arrestato in Algeria

di Guido Salvini

Voglio dedicare questa fine d’anno a qualcuno, una persona singola, senza per questo dimenticare le tragedie dell’Ucraina e del Medioriente, e scelgo lo scrittore Boualem Sansal.

Forse è un nome che non dice molto ma è uno scrittore e giornalista franco-algerino, con doppia nazionalità, è cresciuto accanto alla casa di Albert Camus e ha pubblicato in Francia romanzi importanti come Il giuramento dei barbari nel 1999, un libro profetico sulla deriva terroristica dell’islamismo e 2084 la fine del mondo che anche nel titolo riecheggia la critica alle società totalitarie del romanzo, 1984, del grande scrittore inglese George Orwell.

I suoi libri sono tradotti anche in italiano. È chiamato il Voltaire algerino e nei romanzi il tema delle sue critiche non è solo l’islamismo ma il regime autoritario algerino dove, a dispetto delle speranze accese dalle primavere arabe, le elezioni sono una farsa, in realtà comandano i militari, la corruzione dilaga, la minoranza berbera viene emarginata e la violenza contro gli oppositori è quotidiana.

Il 16 novembre ha voluto comunque coraggiosamente tornare nella sua terra natale dove aveva già perso, come la moglie, il lavoro e aveva ricevuto minacce di morte. È stato subito arrestato all’aeroporto di Algeri con una accusa fantasiosa come quelle di tutti i regimi autoritari: “attentato all’unità nazionale” equiparato ai sensi dell’articolo 87 bis del Codice penale algerino ad un atto di terrorismo e che prevede la pena sino all’ergastolo. Un atto di terrorismo con la penna, tutto qui. In realtà egli è detenuto per le sue opinioni. Ha 75 anni ed è seriamente malato.

In Francia in molti paesi non solo le istituzioni ma la Federazione della Stampa e intellettuali come Salman Rushdie e premi Nobel come Annie Ernaux e Oran Pamouk si stanno mobilitando. In Italia sinora si è mossa per la libertà dello scrittore solo la sua casa editrice Neri Pozza, con un appello all’ambasciatore algerino in Italia.

L’Italia ha tante relazioni e scambi con l’Algeria, soprattutto in tema di energia.  Il gas è importante ma ci sono principi che non sono negoziabili. Anche noi abbiamo il dovere di non tacere ed esigere con un intervento ufficiale la liberazione dello scrittore.

La libertà di espressione e di critica è il patrimonio che l’Europa ha offerto al mondo e senza di esso non vi sarebbero stati, pur tra tanti errori e storture, le conquiste civili e il progresso sociale e scientifico che conosciamo. Alla fine, la libertà di espressione è anche il miglior antidoto alle guerre cui oggi assistiamo. Se ci dimentichiamo di questo ci dimentichiamo di noi stessi e nessuno nel mondo deve essere incarcerato per avere esercitato tali diritti.

Un anno migliore a Boualem Sansal e a tutti.

L’appello ignorato di Giorgio Parisi

L’appello ignorato di Giorgio Parisi

di Gualtiero Donati

Giorgio Parisi, premio Nobel per la Fisica, già presidente dell’Accademia dei Lincei lancia, inascoltato un appello che è insieme un allarme. Appello e allarme che né la maggioranza di Governo, né l’opposizione, a quanto pare, raccoglie. Parisi ci dice che sul fondamentale campo della ricerca l’Italia marcia con il passo del gambero. Ora se ci sono tre settori su cui uno Stato deve investire sono quelli della Sanità, dell’Istruzione e della Ricerca. Fondamentali per garantire un futuro.

Bene. Cioè, male, perché Parisi sostiene che sullo specifico campo della ricerca e i fondi necessari si sta tornando indietro. Ricorda che l’Accademia dei Lincei lo scorso anno aveva predisposto un piano dettagliato per chiedere al Governo di rendere stabili i finanziamenti dopo che, grazie al PNRR, i fondi stanziati erano arrivati a un soffio dall’1 per cento del PIL, in linea con i livelli di finanziamento nel resto d’Europa. E oggi? Oggi “siamo tornati indietro, i fondi sono diminuiti, diversi rettori hanno confermato che hanno difficoltà a chiudere i bilanci”.

Se si fanno tagli percentuali lineari su tutti i ministeri senza aggiungere fondi aggiuntivi. Conclude Parisi, “si mette in difficoltà l’università. La premier Meloni dovrebbe ascoltare le richieste della comunità scientifica. Circola l’idea sbagliata che l’Italia può andare avanti senza ricerca, ma non è così: una società industriale non vive senza ricerca”.

Si può aggiungere che non solo non si vive senza ricerca; non si vive neppure senza ricercatori: i quali vengono formati in Italia, poi sono di fatto costretti ad emigrare, in altri paesi dell’Europa o negli Stati Uniti, che offrono condizioni di lavoro e possibilità appunto di ricerca che il nostro paese non garantisce.

Ora Parisi non è l’ultimo degli arrivati. Un presidente del Consiglio, dopo questo allarme e appello, avrebbe dovuto subito fissare un incontro con uno dei nostri più prestigiosi scienziati, quantomeno ascoltarlo. E non solo Meloni. Una leader serio dell’opposizione che si candida a essere alternativa di governo all’attuale governo, avrebbe dovuto fare altrettanto. L’allarme appello di Parisi è di venerdì scorso. A tutt’oggi inascoltato.

Cinema iraniano perseguitato dal regime

Cinema iraniano perseguitato dal regime

di Michele Minorita

iscattata Cecilia Sala, si spengono i riflettori sull’Iran e i crimini consumati dalla teocrazia al potere in quel Paese? A quanto pare, è scattata l’operazione “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato”, con buona pace del movimento “Donne, vita e libertà”.    

Come non essere complici di questa operazione? Piccoli gesti, anche; come “investire” qualche ora per vedere Il mio giardino persiano, un film di Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeba. Il film era in concorso al festival di Berlino, ma i due autori non hanno avuto il permesso di espatriare: agli occhiuti censori iraniani il film non è piaciuto. Si capisce: racconta di una donna settantenne, vedova, rimpiange gli anni “prima della Rivoluzione”: quando si vestiva come voleva, poteva ascoltare liberamente le canzoni di Al Bano e Romina. Ora è costretta a indossare il velo, ha anche rischiato di essere arrestata per aver difeso una ragazza che non indossava bene il velo islamico. Le dice: Più ti mostri sottomessa, più di mettono i piedi in testa.

La protagonista ha una storia d’amore: una forma di ribellione, sia pure inconsapevole, contro una società bigotta e oppressiva che circonda i due attempati amanti. Si può capire che il film non sia piaciuto alle autorità iraniane.

Non è il solo caso di accanimento contro registi iraniani. Clamoroso quello del regista Jafar Panahi. Ha vinto una quantità di premi tra Berlino, Locarno, Cannes e Venezia, ma i suoi film in Iran sono vietati. Nel marzo 2010 lui, la moglie e la figlia sono stati arrestati, accusati di propaganda contro il governo. Lo condannano a sei anni di carcere più il divieto per vent’anni di girare film. Nel 2011 realizza This Is Not a Film, un documentario contrabbandato al di fuori dell›Iran e presentato al Festival di Cannes. Nel 2015 vince l›Orso d’oro al Festival di Berlino con Taxi Teheran, girato in clandestinità.

Opportuno ricordare almeno un altro regista: Mohammad Rasoulof, più volte condannato dal regime. Nessuno dei suoi film è stato mai distribuito in Iran. Anche lui vince numerosi premi ai festival del cinema; tra gli altri, quello della critica internazionale al Festival di Cannes nel 2013 con Dastneveštehā nemi-sōzand, girato clandestinamente. Nel 2017 realizza Lerd, che gli procura una condanna di dodici mesi di carcere; pena che viene applicata nel luglio 2022, quando viene posto in isolamento nella prigione di Evin. La causa scatenante è l’apertura di altre due inchieste: per aver realizzato un documentario sulle circostanze sospette della morte del poeta Baktash Abtin; e per sottoscritto un appello di condanna delle violenze della polizia contro i manifestanti. Nel febbraio 2023, in seguito a un’amnistia, viene scarcerato. Realizza un altro film, Dāne-ye anjīr-e ma’ābed (Il seme del fico sacro), anche questo girato in clandestinità. Nuovo processo e condanna, carcere e pubblica fustigazione, oltre alla confisca dei beni per aver “compromesso la sicurezza del Paese” attraverso le proprie azioni. Alla fine, Rasoulof, “con la morte nel cuore” decide di lasciare clandestinamente il Paese e di vivere in esilio in Germania.

Bella, necessaria e opportuna sarebbe una rassegna del cinema iraniano dissidente.

Iran. Un carcere riflesso della società

Iran. Un carcere riflesso della società

di Jean-Pierre Filiu

Le dinamiche interne alle dittature si rivelano spesso nei loro sistemi penitenziari, proprio per il carattere profondamente oppressivo di questi regimi. I diari dal carcere fanno luce in maniera netta su simili meccanismi arbitrari, dissipando così un po’ dell’opacità che gli apparati autoritari usano per proteggersi.

L’antropologa franco-iraniana Fariba Adelkhah, detenuta dal giugno 2019 al febbraio 2023, va oltre questo tipo di letteratura nel suo Prisonnière à Téhéran (Seuil 2024). Adelkhah mobilita infatti la sua lunga esperienza di ricercatrice per fornire una formidabile analisi dall’interno della prigione di Evin, destinata a stroncare la contestazione prima sotto il regime dello scià e poi sotto la Repubblica islamica.

L’autrice racconta i meccanismi che oppongono, all’interno di Evin, i Guardiani della rivoluzione, braccio armato del regime, e il ministero dell’intelligence, incaricato della repressione. Ciascuno dei due apparati dispone dei suoi centri per gli interrogatori e la detenzione, e solo dopo la pronuncia della sentenza una condannata è generalmente trasferita nel braccio femminile di Evin. In questa sezione ci sono solo le detenute per motivi di “sicurezza”.

Fariba Adelkhah, incarcerata per sette mesi in segreto dai Guardiani della rivoluzione, è stata trasferita a Evin nel corso di uno sciopero della fame durato settimane. Nell’ottobre 2020 è passata nelle mani del ministero dell’intelligence, dopo la condanna a una pena ingiusta a cinque anni di reclusione per “attentato alla sicurezza nazionale” e “propaganda contro il regime”. Poi è stata messa in libertà condizionata. Ma i Guardiani della rivoluzione, con un falso retrodatato, nel gennaio 2022 l’hanno riportata a Evin. Lì nel febbraio 2023 Adelkhah ha ricevuto la grazia dell’ayatollah Ali Khamenei.

Adelkhah ha rivendicato lo status di “prigioniera scientifica”, perseguitata per le sue attività di ricerca. Nonostante questo, ha creato con le sue compagne di detenzione dei rapporti che, tra ritratti e aneddoti, compongono alcune delle pagine più coinvolgenti del libro.

Si scoprono l’organizzazione dello spazio e funzionale del carcere, i compiti svolti e lo scambio di servizi, i problemi legati all’intimità, all’igiene, al cibo o alle famiglie, il tutto sullo sfondo dei rapporti più o meno tesi con le guardie e l’amministrazione. Nel capitolo “Rondine non si nasce, si diventa”, l’autrice s’interroga su quello che spinge una detenuta a diventare un’informatrice, una “rondine” nel gergo carcerario. Nonostante i numerosi gesti di solidarietà tra detenute, “più frequente del dono, il furto è parte integrante della quotidianità a Evin, per necessità, per avidità o per pura cattiveria”. 

Il braccio femminile è strutturato sulla base delle affiliazioni e delle opinioni. Ci sono le realiste, divise tra sostenitrici dei Pahlavi (l’antica dinastia regnante) e semplici seguaci del principio monarchico; le mujahidin del popolo, “nemiche giurate della Repubblica islamica”, che però “rispettano più scrupolosamente le norme religiose”; le seguaci dei dervisci, che rifiutano l’autorità dell’ayatollah; le convertite al cristianesimo e le bahá’i, considerate apostate dal regime; ma anche militanti di sinistra di vari orientamenti, ambientaliste, operaie che hanno osato scioperare o studenti attiviste.

La prigione diventa, sotto lo sguardo dell’antropologa, “il riflesso della società iraniana nel suo complesso”. Prisonnière à Téhéran offre una bella lezione di scienze sociali da parte di una studiosa che non ha mai rinunciato alla sua libertà scientifica, anche a costo di pagare il prezzo più alto.

Lo sterminio dilaga: non solo più per fame

Lo sterminio dilaga: non solo più per fame

di Marco Pannella

Quello che segue è un articolo scritto per “Notizie Radicali” del 15 luglio 1982. A parte alcuni esponenti politici della cosiddetta Prima Repubblica, attualissimo; come molte delle cose di Marco Pannella)   

L’infame guerra del Libano è guerra. Infame come ogni guerra, senza eccezioni. Bambini, donne, inermi, massacrati? È la regola, non l’eccezione: non solamente a Hiroshima o Nagasaki, ma a Milano o Dresda, a Mosca o Stalingrado, a Londra o Manchester, ad Hanoi o nel Corno d’Africa.

Una guerra pulita? La conoscono solo mentitori, irresponsabili imbecilli. Solo coloro che hanno in riserva nella mente o nel cuore, nelle viscere o negli istinti, la propria “guerra giusta”, la propria guerra “pulita”, “di difesa” e non “di offesa”. Una guerra umanamente possibile, politicamente accettabile, è l’implicito, infame plumbeo sottinteso di coloro che continuano a votare o far passare bilanci di riarmo, a destinare le risorse del paese ad armamenti ed esercito togliendolo alla qualità ed alla dignità della vita di disoccupati, pensionati, senza casa, lavoratori. Oltre agli esportatori di armi che in Italia sono di Stato o tutti di regime (nella classe politica tutti tranne i radicali).

Il nazismo non ha sue proprie caratteristiche in guerra, ma in pace. Finora, anzi, di guerra il nazismo è morto. Non pochi degli ufficiali francesi che torturarono, assassinarono, fecero massacrare uomini, donne, bambini in Indocina e poi in Algeria venivano dalla guerra “antifascista” o erano scampati di Buchenwald come il capitano Yves de Saint-Marc. L’esercito russo compì massacri immensi, quantitativamente incommensurabili con quelli di Boves o Marzabotto. Fra i repubblicani spagnoli che lottavano contro il golpe fascista di Franco le atrocità non furono sempre minori di quelle dei loro nemici…

Le atrocità sono tali, che vengano dagli aggressori o dagli aggrediti (e chi mai si ritiene sostanzialmente l’aggressore?). In genere sono “atrocità” quelle di coloro che si ritiene di poter ancora battere e sono nemici; o che sono stati battuti. La guerra non conosce che assassinati e assassini. I popoli, sono sempre perdenti, massacrati: solo gli Stati, cioè coloro che li dominano, possono essere vincitori o sconfitti.

Per molti la colpa di Israele è principalmente, oggi, quella di essere assassina, anziché assassinata. Il merito dell’OLP è di essere assassinata, anziché assassina. Che sia uno scontro fra nazisti e antinazisti, prima ancora che un’infamia è un errore capitale.

Affermare che Israele è nazista è un modo di assolverla dalla responsabilità della guerra (lo ripeto: necessariamente, costituzionalmente infame e atroce) che conduce d’intesa con i suoi nemici, ma è anche un modo di “assolvere” il nazismo, degradandolo e negandolo nella sua effettiva, mostruosa specificità.

Nazista, trionfo del nazismo, è invece lo sterminio per fame di trenta milioni di persone l’anno ad opera di una ideologia e di una politica che unisce il Nord, sia esso occidentale o orientale, del capitalismo reale o del comunismo reale.

È «pacifico». È un certo «ordine» internazionale, economico, politico, culturale. È effettivamente razzista e classista: le sue vittime sono «inermi», deboli, misere, «disarmate», non di rado «nemmeno ostili», così come non erano necessariamente ostili gli ebrei sterminati negli anni Trenta.

Ci si mostrano ogni tanto gli scampati, raramente gli sterminati, come per Buchenwald o Mauthausen. Come per Hitler, così anche per i “potenti” che evoca continuamente Pertini come responsabili di oggi, l’olocausto non è che un epifenomeno, non quello che si vuole di per sé, non un obiettivo che si rivendica e sul quale ci si chiede consenso e forza. Ma anzi qualcosa che allora si teneva celato, che oggi si finge di deprecare mentre lo si decide e potenzia. Spadolini e Craxi docent.

Per quanto atroce sia il bilancio dei massacrati o assassinati in Libano esso non raggiunge in totale quello di un solo giorno dello sterminio per fame. E con il costo delle armi usate da Israele, OLP, libanesi delle varie fazioni in questo periodo, si è speso da una parte e dall’altra quanto sarebbe stato sufficiente per salvare la vita ad almeno trecentomila persone che invece sono morte di fame. Ma ha assicurato alla nostra industria militare esportatrice d’armi guadagni immensi.

Ecco un’altra caratteristica del “nazismo” attuale: le guerre gli sono utili e necessarie perché forniscono ai suoi Stati ed alle sue industrie profitti immensi, così come lo sfascio economico, culturale, politico, statuale del Terzo e Quarto Mondo è assicurato con l’olocausto di 30 milioni di persone almeno in un solo anno.

Per più motivi, fortunatamente, i mass media del mondo intero (con il sistema di potere che servono ed esprimono, ma anche concorrono a formare e sostenere) hanno deciso che occorre muoverci e commuoverci “informandoci” sul Medio Oriente, ed in modo particolare sulle responsabilità e sui misfatti israeliani. Così, anche su questo fronte, si può operare non isolati, né unicamente da mosche cocchiere se si sanno “leggere” le informazioni e colmare le censure o le manipolazioni che le falsano.

Nasce così la possibilità e la necessità di un impegno del nostro Partito, o di molti di noi, su questo fronte. 

La nostra formale denuncia penale contro il “maggiore” Saad Haddad e i suoi complici (israeliani e libanesi). La decisione di organizzare azioni militanti radicali in Libano ed in Israele nelle prossime settimane. La richiesta di dimissioni a Sharon. Questo stesso spazio di vita del Partito dedicato a questa realtà costituisce una prima assunzione di responsabilità secondo il nostro metodo, quello della puntualità e della consistenza delle responsabilità e delle iniziative sempre a misura di persona. Non di potenti.

Lo faremo, lo facciamo: nel quadro della nostra guerra alla guerra, della guerra contro l’olocausto neonazista, della campagna per l’approvazione dal Parlamento italiano delle proposte di legge dei Nobel e dei sindaci più limpida, più convincente. Andremo anche lì, testimoniando la nostra fiducia nella ricchezza umana e politica della gente israeliana, di quella palestinese, di quella libanese. Rivolgendoci anche a loro nome come a chi può dare, può creare felicità e vita. Contro l’olocausto, contro la paura e l’odio, contro la morte del nemico come massimo orizzonte umano, individuale, popolare, nazionale.

Sarà anche azione lunga, difficile, complessa, come ogni azione che valga, che non sia gesto o narcisistica speculazione di partito o di individuo. Dovremo combattere – una volta di più – contro la politica della nostra partitocrazia, squallida, cieca, sporca, come a Roma, in Sicilia, o a Bruxelles.

Gli uni, i più e vincenti per ora, hanno colto l’occasione quasi con felicità, con orgasmo, delle “vittorie” di Israele e del massacro che ha permesso e causato, per far passare l’apologia dell’OLP, la pretesa di decidere in luogo del popolo palestinese sulla propria politica, sul proprio Stato. Per liquidare conti di altra natura con Israele, per riproporre gli USA come gli unici e massimi responsabili della guerra del Medio Oriente e delle atrocità che non può non comportare, per evitare una riflessione sugli “assassini” siriani, sud-yemeniti, irakeni, iraniani e sui regimi degli sceicchi del golfo, sulla politica russa.

Tutti guarda caso (tranne noi) disinteressati ad una qualsiasi seria analisi democratica e anche di classe, ad una qualsiasi lettura in termini di pace, di giustizia, di libertà, di progresso, di civiltà di questa vicenda che è unica, da Teheran a Tel Aviv, dalle montagne dove si sterminano i curdi, ai deserti del Sinai, dalla Siria al Libano.

I quindicimila-ventimila morti di quest’anno in Libano, per la maggior parte palestinesi, devono essere gli ultimi. Se Israele non converte immediatamente la sua offensiva militare e bellicista in offensiva di pace e di giustizia (e la democrazia israeliana non sembra esserne oggi capace da sola), dobbiamo tener fede al dovere di ingerenza che chiunque vive e lotta per la vita sa esser il suo, contro la menzogna delle indipendenze nazionali e degli Stati. Occorrerà quindi stabilire contatti con le forze israeliane, libanesi, palestinesi “di pace”, che facciano la scelta della lotta contro l’olocausto nazista come prioritaria e quella della nonviolenza e della democrazia. Occorrerà in ogni modo aiutarne e sostenerne la lotta. Con i nostri amici premi Nobel, con Food and Disarmement, con tutti coloro che in questi anni hanno mostrato di sapere davvero volere vita e pace. Quindi, ne sono sicuro, innanzitutto con i compagni, soprattutto con i nuovi compagni radicali, quelli del Partito del 1982.

Faremo anche questo, dunque: e dovremo saperlo fare compagni, sorelle e fratelli, amici, ed ex “camerati” (di nuovo benvenuti!) del Partito.

Ma è evidente, è certo, dobbiamo non illuderci: il primo fronte anche per il Libano, anche per il popolo palestinese, è quello dei “vivi per lo sviluppo”, è quello dei “tre milioni di vivi, quest’anno”, è quello della proposta di legge dei Sindaci, dei Nobel, dei Vescovi, che il Parlamento, il Governo italiano, i partiti della maggioranza (e anche gli altri) hanno affossato.

Il Congresso del Partito, il 27 ottobre, a Bologna, avrà responsabilità difficilissima drammatica e splendida da affrontare.

iMagz